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Olmi si è formato qui, nella pratica quotidiana, non ha frequentato centri sperimentali, nè ha passato le giornate della giovinezza nel buio delle cineteche. Olmi ha lavorato sempre.

Alberto Pesce, «Cineforum» n° 50, dicembre 1965

Ermanno Olmi è ormai una figura eminente del cinema italiano. Egli non è certo un funambolo che si compiaccia di giocare con il mestiere, né un intellettuale che perda tempo a teorizzare le forme di una eventuale poetica; Olmi è un «uomo» che fa il «regista», in umiltà e discrezione, senza prosopopea. Per questo, i suoi film sono educativi, proprio per virtù congenita e diretta; e nascono tali non perché Olmi li appesantisca di insegnamenti, ma perché essi esprimono sempre la condizione umana di chi si trova a dover ” vivere , prima che ad ” essere .. nel mondo.

Olmi ora ha trentaquattro anni. Questa sua vocazione di regista che vive da uomo a contatto con altri uomini, egli è riuscito a mantenere integra e pura in mezzo ad una ricca ed intensa attività documentaristica. Egli infatti è nato al cinema come stimolante autore di reportage dal vero: dal 1953, quando con una cinepresa da 35 mm. affittata per l’occasione ebbe a girare un breve documentario su una diga a 2500 metri, e poi, per incarico ufficiale della Edisonvolta, un cortometraggio sui bambini calabresi ospitati nella colonia Edison di Sune, sul lago Maggiore, Olmi, per quasi otto anni, ha realizzato decine decine di documentari, che, secondo le intenzioni dei dirigenti della Edisonvolta, avrebbero dovuto registrare le maggiori opere della società e offrire magari alcuni validi sussidi tecnico-didattici per le scuole di qualificazione professionale.

Olmi si è formato qui, nella pratica quotidiana, non ha frequentato centri sperimentali, nè ha passato le giornate della giovinezza nel buio delle cineteche. Olmi ha lavorato sempre. Nato a Bergamo il 24 luglio 1931, dopo avere frequentato l’Accademia di recitazione ed aver portato alla ribalta come regista testi di Girardoux, di Thornton Wilder, di Labiche e di altri, a diciott’anni era già impiegato a Milano, presso la Edisonvolta, all’Ufficio approvvigionamenti; il mondo del lavoro gli si offriva dal basso, negli aspetti più grigi e consueti. E anche quando egli vi si è allontanato sulla scia del suoi successi cinematografici, non l’ha più dimenticato. Gli è sempre rimasta in fondo all’anima la predilezione per i personaggi umili e semplici, quali egli aveva conosciuto dentro le officine, dietro i banchi di lavoro, accanto agli impianti industriali. Forse per questo amore all’uomo prima che alle cose, quei primi cortometraggi che avrebbero dovuto essere una fredda ed obiettiva documentazione di individui alle prese con dighe, cavi, piloni, condotte forzate, ecc., si erano trasformati In una rivalutazione degli aspetti umani e sociali del mondo del lavoro.

Per almeno cinque anni, però. Olmi è rimasto nell’anonimato. l suoi primi film, tra cui notevolissimi erano già Il mio ghiaccio (1964); La pattuglia di passo san Giacomo (1959) e Manon: finestra 2 (1956). sono serviti a scaltrirgli il linguaggio e a rendergli sempre più accorto il ritmo di montaggio. Solo con U pensionato del 1958 si sono avvertite le prime attenzioni umanistiche di Olmi, che, dopo aver realizzato tra il 1959 e il 1961 il poker d’assi dei suoi migliori documentari (Tre fili fino a Milano, Venezia città moderna, Alto Chiese ,Un metro lungo cinque), ha tentato di trasporre la sua esperienza documentaristica e la sua predilezione per i personaggi semplici e modesti su un piano di largo respiro narrativo.

Con il suo primo lungometraggio, Il tempo si è fermato (1959). Olmi narrava l’incontro, al di là di ogni diaframma di incomunicabilità, tra uno studente e un operaio, i quali, messi l’uno di fronte all’altro, nella solitudine fisica del tremila metri della vedretta del Venerocolo, e quasi in nudità spirituale, sgelavano a poco a poco il penoso imbarazzo del primo contatto e, attraverso il decrescere della soggezione nel montanaro e il graduale interessamento dello studente per la realtà a lui prima sconosciuta del lavoro manuale, giungevano all’intesa cordiale e all’amicizia.

Con il secondo film, Il posto, due anni più tardi, Olmi rievocava un altro incontro difficile. Un figlio di operai, costretto ad inserirsi, suo malgrado, ma con tanta remissività, nel mondo sociale del lavoro organizzato, cercava di superare il disorientamento interiore, afferrandosi dapprima al tiepido richiamo di un affetto e su questa maturazione dei sentimenti riusciva poi a costruire il suo a posto ” nel mondo, adattandosi senza rivolta a percorrere il suo cammino nel labirinto del lavoro moderno. (1)

Con l fidanzati, dopo altri due anni, Olmi riprendeva lo stesso discorso, che è una ricerca del a dialogo, che l’uomo fa con il prossimo e con se stesso, al di là della solitudine e della noia, nella solidarietà di una amicizia o nella donazione di un amore, ed anche talvolta, nell’Impegno di un lavoro, qualunque esso sia, purché esso esista e dia fiducia all’uomo. Ma il sentimento che lega i due protagonisti, Giovanni e Liliana, è un affetto concreto che investe la realtà sociale del lavoratore. Giovanni alla fine lo sente (come del resto lo sente e lo crede anche il regista) l’unica valida dimensione umana che oggi possa dare uno stabile equilibrio all’esistenza dell’uomo pericolosamente soggetto, nella società tecnologica contemporanea, a perdere la proprietà di se stesso e ad isterilirsi nel cc monologo D . Perciò, il tema di l fidanzati andava al di là del soggetto e della trama; esso era piuttosto la tensione dell’uomo fuori dal .. monologo D , verso il .. dialogo D , non solo con l’esterno, ma, mercè l’aiuto dell’esterno, con se stesso, in una presa di coscienza individuale del proprio “posto” nel mondo del lavoro e della famiglia. (2)
Per questo, in fin dei conti, anche i cc fidanzati D del terzo film di Olmi assomigliavano alquanto ai personaggi dei suoi film precedenti; anch’essi, come Natale e Roberto, l’operaio e lo studente di Il tempo si è fermato, come Domenico e Antonietta, gli impiegatini di Il posto, anche Giovanni e Liliana erano personaggi discreti e modesti, di pochi pensieri, di scarne parole, psicologicamente legati ad un semplicisnio elementare che investe la loro esistenza e comporta un uguale impegno di serietà, dovunque il destino li porti a vivere e a svolgersi nel mondo.

Erano così (o almeno tali ad Olmi sono apparsi nel giugno del 1963) anche personaggi che egli ha trovato a Padova, nelle giornate in cui si celebrava la festività annuale di Sant’Antonio. E proprio da essi, dall’ambiente degli umili, dei semplici, dei pellegrini, dei poveri che non si scandalizzano di Cristo e si nutrono con sincerità totale della parola evangelica. Olmi ha preso le mosse, nella realizzazione del mediometraggio televisivo sul Taumaturgo di Padova, rovesciando forse il progetto iniziale di un documentario agiografico su Sant’Antonio e presentando con Settecento anni un documento sulla presenzialità del Santo nel mondo contemporaneo.

Olmi cioè, più che attraverso la galleria dei miracoli, ha tentato cc un primo contatto con Sant’Antonio , secondo la propria genialità di uomo semplice tra i semplici, in mezzo alle figure più caratteristiche dell’ambiente umano brulicante intorno alla Basilica ogni tredici di giugno. Vi ha trovato un assedio al tempio da parte di devoti, di assetati, di bisognosi, di uomini, di donne, di bambini, di vecchi, di contadini, di impiegati, di commesse, di studenti, di militari, di italiani, di stranieri: vi ha sentito un’aria sagraiola, vi ha intravvisto un viavai giocondo e libero. Olmi ha cominciato a lampeggiare su alcune di queste figure, con un’angolazione intelligente o un indugio scherzoso, ma senza malizia, e ne ha tipizzato le individualità, fasciandole con una musichetta allegra, da fiera paesana. Poi è entrato in chiesa insieme con tutti, ma forse ancora con un animo distaccato, si è mosso secondo le regole del mestiere, ha osservato i celebranti del Pontificale, i fratini in preghiera, i fedeli che facevano ressa, gli operatori incollati alle macchine, i tecnici che vagabondavano con i loro strumenti. L’ambiente, nel passaggio dall’esterno della piazza all’interno della Basilica, si è indubbiamente dignificato, ma Olmi non riusciva ad eliminare un certo sospetto di messinscena, alla ribalta.

Il regista perciò ha sentito irrefrenabile il bisogno di sondare al di là delle apparenze. E’ uscito nel chiostro e sotto gli ampi porticati ha fermato i pellegrini, di qua, di là, con interrogativi chiari e precisi; le domandine rimbalzavano da un fedele all’altro e le risposte scaturivano immediate, senza fronzoli, dicendo pressoché le stesse cose, mostrando le stesse preoccupazioni. La suora che dichiarava di chiedere al Santo la grazia di farla santa, non era diversa dagli altri che chiedevano, forse con altre parole, le stesse cose. quando desideravano la sanità, la salute, la pace, e la libertà di venire a vedere e a pregare.

Olmi allora, pur trovandosi ormai Immesso in pieno clima antoniano, è stato preso quasi da un religioso tremore, ha cercato intorno un appoggio e una corresponsabilità: e Carlo Campanini, il devotissimo del Santo, si è avanzato allora per leggere alcuni brani delle omelie del Taumaturgo padovano, le quali sembravano discorsi d’occasione contro il gusto schizzinoso» dei letterati e degli editori, o contro la vanagloria dei filistei .che lavorano per aver paga dagli uomini, o contro il rispetto umano dei predicatori, o contro l’attivismo mondano dei religiosi, o contro le violenze dei prepotenti, o contro la vanità del mondo. Ma, in virtù delle immagini, che le scrostavano di dosso
la patina letteraria del tempo, ogni frase ha acquistato d’improvviso una apertura di sconcertante attualità. Ogni parola di ieri si è accoppiata così ad una precisa documentazione di oggi, e ne sono folgorati su uomini e cose giudizi tremendi, a volte agghiaccianti.
Sant’Antonio è sembrato così parlare, dallo schermo del film di Olmi, con un rinnovellato senso di ubiquità temporale, anche per noi, uomini di un’era quasi spaziale. Ogni parola del Santo ha agganciato come un uncino vicende di oggi, il divismo televisivo, Mastrella, Matteotti, Ghiani, Giuffrè, i frati di Mazzarino, don Gnocchi, gli scontri razziali di Little Rock e di Birmingham, i funerali di Kennedy, e, di riscontro, ambizioni, compromessi, pastette politiche, litigi, dolori, sofferenze, aberrazioni, odi, fanatismi, vanità, che sorvolavano dallo schermo con un urlo lacerante, fuori dalla santità, fuori dalla pace, in uno stato di diabolica ebbrezza che si avvolgeva a spirale in se stessa, verso la stretta porta della morte, angusto buco che a stento potrà attraversare l’anima sola e nuda».

Per il Santo, invece, la morte è stata come l’aurora, la fine della notte e l’inizio del giorno», il termine della miseria e l’avvento della gloria: il suo transito risale per gli uomini alla sera del 13 giugno 1231, all’Arcella, presso Padova, dove il Santo era stato trasportato agonizzante su un carro, da Camposampiero. E agli uomini d’oggi, in suo ricordo, non rimane che ripetere .. l’azione sacra del viaggio»; essa, anche nelle immagini del film, è sembrata iniziare come una recita alla ribalta, come una ricostruzione per palcoscenico, come può far sospettare quel direttorio, che era così minuto nello specificare ogni particolare della cerimonia. Ma il regista si è accorto ben presto che da azione teatrale la processione diventava, per la pietà e la commozione dei fedeli, un’azione reale e spontanea, partecipazione viva di un popolo che camminava nel fango, sotto la pioggia, ricordando la serafica dormitio, di un uomo che, dopo aver operato, lavorato, amato nel “dialogo aperto con tutti gli uomini, è rientrato nel segreto divino della contemplazione eterna, “come un bambino corre piangendo nelle braccia della madre”·
Olmi così è arrivato, anche lui, ad una visione apologetica del Santo, ma di ritorno, dopo essere partito, congenialmente, dalla osservazione delle moltitudini che ogni anno si recano In pellegrinaggio alla Basilica e dalla considerazione della incredibile attualità dei discorsi di Sant’Antonio. E nella visione angelica, che strutturalmente era quella tomistica e dantesca («Ogni Santo si allieta in cielo della glorificazione degli altri e così il suo amore si riversa sugli altri si sono insinuati allora, ancora una volta, i richiami dell’affanno contemporaneo, cui non c’è consolazione se non quella dell’amore che è ” la pienezza della legge ,. e unico debito d’unione tra uomo e uomo.

Olmi è appunto il regista dell’amore che si fa carità, della bontà che ama nella misura propria dell’uomo, del «monologo, che provoca, di necessità, il cc dialogo ,.. L’ha confessato lui stesso in una lettera a Camillo Bassotto, scritta in margine ad una scheda che il sottoscritto dedicava a I fidanzati. Per me sentimento vuoi dire essenzialmente questo: la nostalgia di un dialogo, da fare prima con noi stessi e poi con gli altri. I fidanzati è o vorrebbe essere proprio una illustrazione esemplare di questo: Il monologo che diviene dialogo. Mi pare un momento umano che esige dignità, responsabilità». (3)

Per questo il cinema di Olmi, pur così umbratile e modesto, è un cc segno dei tempi. Dapprima limitato alle esperienze umane del lavoro e della famiglia, poi espanso in una dimensione metastorica (con Settecento anni), il suo discorso insiste sugli stessi motivi di un superamento dei sentimenti individuali verso la ricerca concreta di una società rinnovata, di una adeguazione, eroica perché umile, alla storia degli uomini, di una disponibilità alla, apertura “buona, verso gli altri, nella preoccupazione “più di ciò che unisce che di quello che separa e suscita contrasti.

Queste ultime sono parole di papa Giovanni, da lui scritte ancora quando era patriarca di Venezia. Olmi, bergamasco, e perciò sentimentalmente prima ancora che ideologicamente vicino alla bontà comprensiva e dolce di papa Ron· calli, le ha lette su Il Giornale dell’anima (4), vi si è commosso, le ha rilette, vi si è ritrovato: in papa Giovanni XXIII, Olmi ha riconosciuto il punto di riferimento “ufficiale” della propria sensibilità, il proprio personale segno dei tempi.

 

 

E venne un uomo

Perciò ha voluto darne testimonianza: E venne un uomo è il bisogno istintivo dì Olmi di comunicare per immagini la conoscenza di una lettura spirituale, senza ricorrere a infingimenti, trucchi, travestimenti. artifici. Anche altri pensavano quanto fosse assurdo una reinvenzione scenica del personaggio: don Angelicchio aveva scoraggiato le richieste del regista francese Léo Joannon per un film su papa Giovanni da interpretarsi con la maschera di un attore famoso, il vaticanista Vincenzo Labella aveva confermato a Harry Saltzman l’impossibilità di una messinscena spettacolare con il concorso di un attore che assumesse caratteristiche fisiche e vesti di papa Roncalli, mons. Loris Capovilla, segretario del Papa, aveva suggerito piuttosto una soluzione di tipo Journal d’un curé de campagne di Bresson con un personaggio rievocato attraverso le sue stesse parole e un ambiente rivisto in soggettiva, quasi con i suoi occhi.

Occorreva pertanto una ” mediazione » che fosse capace di liberare la figura del papa dalle convenzioni dello spettacolo e permettesse di riprenderne l’itinerario terreno come una lezione d’amore e una testimonianza di santità. Una simile soluzione narrativa non era nuova per Olmi che l’aveva sperimentata in Settecento anni, dove Carlo Campanini, apprestandosi a leggere alcune prediche di Sant’Antonio, aveva esercitato una vera e propria mediazione visivo-sonora tra il testo sacro e i richiami della cronaca contemporanea.

Olmi si è afferrato a questa a trovata, avvolgendosene però a spirale, persuadendosene con entusiastico fervore, sì da eliminare quasi pregiudizialmente qualsiasi riserva e perplessità. La mediazione visivo-sonora di Campanini ora gli si trasformava, ideologicamente, strutturalmente; avrebbe dovuto essere, in E venne un uomo, un legame tra passato e presente, tra il personaggio e gli ambienti, ma da una angolatura dichiaratamente attuale e viva. Sennonchè, nella convinzione che ” allo stesso modo che una persona, nel raccontare un fatto relativo ad un personaggio, passando dal discorso indiretto a quello diretto e riferendo le parole stesse del personaggio, finisce con lo assumere – ai nostri occhi – l’identità più intima, se non quella fisica, Olmi ha preteso dal mediatore una funzione di volta in volta molteplice e difforme. Proprio sul piano della struttura narrativa, la mediazione è stata troppo ardita: il personaggio del mediatore, interpretato con monocorde meditatività da un corposo e austero Rod Steiger in panni borghesi – ha cominciato al margine con una presenza quasi segreta, poi ha iniziato la sua opera di sutura, di cerniera narrativa tra le scene di attualità a Sotto il Monte e i ricordi lontani rievocativi dei momenti esistenziali di Angelo Giuseppe Roncalli, e si è offerto via via per la ricostruzione di un discorso più Intimo tra il personaggio del papa, l’azione scenica del film e l’attesa del pubblico, ora limitandosi al ricordo diretto, ora al commento fuori campo, ora alla contemplazione di un ambiente similare, ora all’identificazione in prima persona.

Specialmente dall’ordinazione sacerdotale del giovane Roncalli sino alla sua partenza da Venezia per il Conclave dell’ottobre 1958, Olmi ha fatto assumere a Rod Steiger una identificazione stretta, morale anzitutto, ma anche mimica talora (forse per frutto istintivo dell’educazione teatrale di Steiger all’Actor’s Studio di New York), con la figura di Angelo Roncalli, nelle varie fasi della sua luminosa carriera come segretario dapprima del vescovo di Bergamo, mons. Radini Tedeschi, e poi come visitatore apostolico in Bulgaria, delegato apostolico In Turchia e Grecia con sede ad Istambul, nunzio apostolico a Parigi e patriarca a Venezia.

Ma l’identificazione, persino m1m1ca. si appoggia sulle confidenze di una prosa ottocentescamente quasi manzoniana, rotonda nel giro sintattico della frase, costruita con un gusto colto, indiretto, di eco letteraria, mentre invece il personaggio Roncalli, come prete e come vescovo, persino come papa, aveva un’andatura linguistica più spezzata, aneddotica, estemporanea, senza fronzoli retorici, ma quasi pudica e ritrosa entro un cerchio di conversatività familiare. La letteratura, sia pure accortamente antologica, di Il Giornale dell’anima ripropone perciò già di per sé un certo qual distacco dalla materia, un larvato giudizio sulle cose e sugli uomini, quasi un ripensamento a posteriori, di riflesso, mentre invece intorno a Rod Steiger, portato a rivivere in prima per· sona le fasi della vita di papa Roncalli, l comprimari e le comparse recitano la loro parte nei costumi delle varie epoche, fingendo di credere di fronte allo Steiger, borghese in panni moderni, come all’incarnazione visiva di An· gelo Roncalli. Il gioco drammatico è ambiguo e non sempre reversibile in suasività spettacolare; ne viene anzi un senso di disagio o di sconcerto, soprattutto in situazioni di estrema tensione o umanità, come nell’agonia del vescovo di Bergamo, dove la presenza del mediatore dà un’impressione di rifacimento alla ribalta e affiochisce il senso tragico di una morte difficile, o come nella confessione del Patriarca-Steiger in ginocchio davanti al vecchio prete veneziano, malato di trascuratezza e di etilismo.

D’altra parte, che la compenetrazione allusiva tra mediatore e mediato, non volesse essere la convergenza di un processo mimetico di attrazione, ma un momento del racconto è dimostrato soprattutto dall’ultima parte del film, dove la sovrabbondanza degli inserti filmati incrina questo processo identificativo e tende a dissociare Il mediatore· dal “suo,. personaggio, come in effetti forse Olmi stesso ha perseguito, se ha pensato nell’ultima sequenza del film di lasciare bruscamente da parte la funzione mediatrice del narratore per fissarsi sul primo piano del volto buono e presago di Giovanni XXIII, nell’atto di entrare in San Pietro per la sessione inaugurale del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo.

Anche in Settecento anni, Olmi ricorreva al montaggio visivo del materiale di repertorio, ma la documentazione serviva allora ad attualizzare in un vincolo di agghiacciante contemporaneità un discorso ducentesco e devoto, legato a stilemi e contenuti dell’epoca, e a rivedere, secondo una prospettiva religiosa, uomini e fatti di oggi, posteriori di sette secoli, ma quasi previsti anzitempo, nella loro violenza o ipocrisia o corruttela, come tabe d’origine della miseria umana, che cocciutamente sfugge alla redenzione di Cristo.

In altre parole, il materiale di repertorio sfruttato in Settecento anni, riproponeva la stessa alternativa di discorso, che Pier Paolo Pasolini aveva ottenuto con il commento musicale in Il vangelo secondo Matteo, dove gli spirituals, i blues, e addirittura la cadenza religiosa della Messa Baluba, hanno permesso di operare una reinvenzione moderna dei fatti eristici, staccandoli dalla prospettiva spettacolare e, In virtù del contrappunto sonoro, innervandoli entro una matrice di cultura a noi contemporanea, sì da riuscire a ricreare, persino sul piano figurativo e narrativo, una suggestione e una tensione dinamiche.

Invece, in E venne un uomo, il materiale di repertorio è puramente illustrativo o preteritivo, serve da commento visivo al racconto del ” mediatore n o tenta un raccordo temporale, specialmente nell’ultima parte, quando forse un eccesso di rispetto devoto vince la confidenza iniziale del regista. Prova ne sia che Olmi ha cancellato via via dallo scenario iniziale ricostruzioni fittizie, invenzioni episodiche di maniera, riprese aneddotiche di spuria tradizione, per sostituire il piano rievocativo con quello cronistico dell’epoca. Per rendersene conto, basta rileggere l’ultima parte dello scenario, che ha ancora l’ampiezza narrativa e la ricchezza lirico-sentimentale della prima parte, e compulsarla invece con la visione del film, molto più affrettata e risolta con materiale fotografico e short cinematografici e televisivi di repertorio, che imprimono al film una cadenza illustrativa tutta esteriore.

Ora Olmi non è fatto per l’illustrazione, perché è incapace di adeguamenti passivi. Egli ha bisogno di un ritmo suo, di concezione e di struttura – non per niente, dei suoi film, Olmi è stato sempre l’Ideatore, lo sceneggiatore, il regista-Olmi ha bisogno cioè di ricreare una storia per conto suo, di angolarla da una prospettiva tutta sua, non può limitarsi a riproporre per immagini il discorso o la vicenda di un altro. Altrimenti finisce per applicare a rovescio il suo tribolo creativo, in una scarnificazione progressiva del suo apporto personale, sempre più tenue, sempre più labile, sino quasi alla visualizzazione pura e semplice di una documentazione agiografica, dove un maldestro rispetto della verità altrui porta Il regista ad ignorare la verità propria, eliminando gradualmente un’Interpretazione, o un viluppo drammatico, o una conclusione, e cristallizzandosi in una piatta illustratività, voluta, ricerca ta, ma molto meno spontanea di quanto Olmi stesso non creda. E ad essa finiscono allora per aderire persino le ricostruzioni ambientali riprese ma non reinventate.

Così, a differenza, per esempio, del commosso incanto dell’incontro tra il visitatore apostolico Roncalli e il vescovo armeno Boghila, quando la reciproca carità dei due prelati si fonde nel coro univoco del Pater noster in una sequenza sgorgata di getto dall’intuizione del regista perché emblematica di una ” sua tensione verso l’ecumenicità del dialogo. Olmi invece, in altre scene di Bulgaria, o ad lstambul, o in Vaticano, o a Parigi, ha assecondato, con succube attenzione, ambientazioni e vicende, senza interpretarle, forse per incapacità istintiva, forse però, molto più probabilmente, per timore di prevaricazione.

E’ vero che Olmi è un settentrionale, di estrazione contadina, di formazione borghese lombarda, per cui può anche darsi che le sue possibilità di ricreazione fantastica si concentrino in un tempo storico e in un ambito spaziale ben precisi; tuttavia, nei suoi film precedenti, Olmi aveva dato segno di una forza innata di interpretazione del paesaggio anche esotico. Si ricordi, per esempio, la nuova dimensione con cui in l fidanzati era apparsa al protagonista la Sicilia: poche immagini, una orizzontalità supina denudata, di sera, quasi controvoglia, dalle luci dei fari dell’automobile, e di giorno, immobile sotto il sole abbacinante, turbata più che rotta dai “verticalismi» nordisti delle ciminiere, dei piloni, dei silos, dei castelli di ferro delle Imprese industriali.

Invece, quando, sulla scia della ” mediazione» di Steiger, Olmi si porta in Bulgaria, ad Istambul. in Vaticano, a Parigi, c’è per lo più, quasi un rifiuto del regista alla caratterizzazione personale di quel paesaggio, o di quello scorcio, o di quella fuga architettonica. Eccesso di rispetto, timore di prevaricazione, volontà di distacco, per non turbare, per non interferire.

Anche nella prima parte del film, ci sono forse le stesse premure intenzionali, ma qui l’estro dell’artista, la voce del poeta sono più forti, vibrano con una spontanea congenialità, fluiscono rapide, incisive, pregnanti, così, con quel tocco, con quell’Impasto cromatico, con quella battuta vernacola, con quello scorcio paesano che Olmi porta seco, dentro il suo spirito, anche se è convinto di vederlo solo dal di fuori, nella realtà circostante.
Per questo, al di là della volontà agiografica del film, le prime sequenze di E venne un uomo hanno il fascino delle cose perfette. Accanto ai personaggi modesti di Sotto il Monte, così come sono oggi, di onesti pensieri, di scarne parole, di sincere preghiere, di molta virtù, di fronte ai loro atteggiamenti ancestrali e dignitosi, fermi ad una probità mitica piena di rispetto per Dio, per il prossimo, per sé, Olmi si è ritrovato d’istinto. Quelle veglie con il Rosario in mano, quei conversar! pacati e lenti, quel giro patriarcale attorno al desco fiorito di barbe ispide e di occhi infantili, Olmi li aveva già incontrati nei suoi documentari: erano le stesse persone, quasi le stesse famiglie, erano le stesse pareti, quasi le stesse cascine.

Il mediatore, non ha bisogno neppure di dovere Interpretare le scene, ma di ricordarle appena, senza forzature, con analoghe presenze di ottant’anni fa. Anche l fatti si acquietano così in un idillico contesto di fioretti rusticani: Olmi, per virtù sua nativa, li sa raccontare con candore e ingenuità, ma anche con nostalgico amore per una semplicità di modi e di rapporti che sembra oggi confinata fuori dal mondo e che il regista sente tuttavia congenialmente sua, e preso da commozione, confidenzialmente, finisce per attribuire anche alla lontana infanzia e adolescenza di Angelo Giuseppe Roncalll. Olmi non resta affatto Intimidito da questo amoroso accostamento; l giochi del bambini sulla ala. il battesimo di un neonato minutino e affaticato, ma con tanta voglia di starsene al mondo, la designazione onomastica al fonte, quasi emblematica, di Angelo Giuseppe, l’onestà di zio Saverio, le prime letture compitate, i primi servizi da chierichetto, le corse e i salti giù per i declivi, magari in cotta tarcisiana, i primi intoppi con il latino, sono episodi che nascono fluidi dalla fantasia del regista e hanno bisogno di poche rifiniture perché sono già di per sé toccanti, precisi, perfetti, nella plasticità di un piccolo volto paffuto da· gli occhi sgranati, o nella tipicità rustico-lombarda di un vecchio, o nella quotidianità di un Interno contadino.

La fotografia di Portalupi aggiunge, semmai, sulla scorta sentimentale del racconto, una patina dolce, d’autunno avanzato, con i verdi fatti smeraldi nel mito della memoria nonostante la luce fioca e brumosa del sole, con i rossi o gli ori che raggomitolano attorno a sé la scena e la vivificano, con i grigiocra che sembrano eterni, fermi ad una tavolozza aulica. Nel colore di Portalupi, ci sono la commozione, il rimpianto, la letizia, la serenità di Olmi, un uomo che fa il regista e sa ” dialogare », nello spazio. con i paesaggi della natura e dello uomo e, nel tempo, con chi è vissuto ieri e rifrange sull’oggi la sua esperienza vitale.

Poi, con lo svolgimento del film, Olmi sente un progressivo distacco dal personaggio-Roncalli. Il regista si fa ammirativo, apologeta encomiastico. si lega a Il Giornale dell’anima e lo segue pedissequo e devoto, pur conoscendone i limiti sul piano dello scenario cinematografico, e operando perciò solo una scelta episodica, questo e non quello, in rapporto ad una presenza umana che resta ristretta alla scena e non presuppone un richiamo ulteriore. Non c’è neppure dramma umano a volte, ma una galleria di fatti, dove le note biografiche di Angelo Giuseppe Roncalli – quali si possono leggere nella stesura di Nanni D’Eramo diventano la sinossi stessa del film, ed escludono una conclusione di merito, quasi un messaggio provocatorio.

E venne un uomo, questo è il titolo dell’Inizio, Il suo nome era Giovanni, questa è la sigla della fine del film, ma il contributo dato da quest’uomo , che si chiamava Giovanni, e del momento in cui cominciò a chiamarsi Giovanni, si dà come implicito, si lascia piuttosto alla capacità rievocativa dei contemporanei, forse per non racquietarli, con la documentazione di un breve ma intenso pontificato, forse invece per sollecitarli ad un loro dialogo, attraverso le immagini, con il proprio tempo e con il proprio prossimo.

Forse E venne un uomo, contiene, proprio nella maniera più umile, questo impegno di mediazione e di un regista che tenta una ripresa di a dialogo D con l suoi contemporanei attraverso la biografia di un Papa santo e buono, nato anch’egli, a segno dei tempi … per il a dialogo D universale. Dalla sua luce Olmi è rimasto quasi abbacinato e perciò non ha saputo sempre tradurla nel fervore delle immagini. Ma gliene siamo grati ugualmente, al di là degli appunti critici, severi, talvolta, ma affettuosi sempre: perché un po’ di quella luce di santità, per merito di Olmi, è rimasta coagulata, preziosamente, nelle immagini del suo film.

1. Per un esame più approfondito e analitico del film Il posto, cfr. la scheda a cura di Alberto Pesce, in «Cineforum», a. l, n. 7-9, settembre-novembre 1961, pp. 419.459.
2. Per un esame più approfondito e analitico del film l fidanzati, cfr. la scheda a cura di Alberto Pesce, in «Cineforum», a. Ili, n. 24, aprile 1963, pp. 318- 346.
3. Ermanno Olmi, «Mi domandate perché», in « Cineforum », n. cit., pp. 353- 354.
4. Giovanni XXIII, Il Giornale dell’anima, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1960.

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